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lunedì 10 luglio 2017

L’età della pietra (Marco Travaglio)


Appena il boss stragista Giuseppe Graviano, intercettato nell’ora d’aria, ha dato segni d’insofferenza e lanciato propositi di vendetta per le promesse non mantenute dai tanti che trattarono con Cosa Nostra per conto dello Statoe anche per conto proprio in attesa di farsi essi stessi Stato fra il 1992 e il ’94, nel biennio delle stragi, lo Stato non ha perso tempo e ha subito risposto. Con una sequenza di atti tutti formalmente legittimi, ma tutti impensabili fino a qualche mese fa. 1) La Cassazione ha respinto il diniego del Tribunale di sorveglianza di Bologna alla scarcerazione di Totò Riina, detenuto da 24 anni al 41-bis per scontare 15 ergastoli, invocando il suo diritto a una “morte dignitosa” nel letto di casa sua, come se fosse la cosa più normale di questo mondo. 2) Forza Italia ha chiesto formalmente agli amici del Pd di ammorbidire il nuovo Codice antimafia che allarga le maglie dei sequestri dei beni a chi risponde “soltanto” di corruzione o concussione, delitti sempre più difficili da distinguere da quelli delle nuove mafie. 3) Marcello Dell’Utri ha chiesto di tornare a casa anche lui per fantomatici motivi di salute, anche se dei 7 anni inflittigli per concorso esterno in associazione mafiosa ne ha scontati solo 3. 4) Lo stesso Dell’Utri ha ottenuto il permesso di farsi intervistare su La7 in una saletta del carcere, caso più unico che raro per un condannato detenuto per mafia e mai pentito, per definirsi “prigioniero politico” e benedire il governo Renzusconi prossimo venturo, mentre l’intrepido intervistatore lo chiamava “senatore”. 5) La Cassazione ha annullato le conseguenze della condanna definitiva di Bruno Contrada a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, in un “incidente di esecuzione” che non entra nel merito del verdetto e discute la colpevolezza, ma rende “ineseguibile e improduttiva di ogni effetto” la sua stessa pronuncia.
E così si associa a quanto stabilito nel 2015 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ritiene di fatto inesistente il reato di concorso esterno prima del 1994, perché fino ad allora (quando la Cassazione si pronunciò a sezioni unite) la giurisprudenza oscillava e gli uomini dello Stato non sapevano che vendersi alla mafia era reato. Il Contrada che oggi politici, tg e giornaloni ignoranti, smemorati o in malafede dipingono come un povero martireinnocente e perseguitato per un quarto di secolo dagli aguzzini in toga è l’uomo che una quarantina di giudici di funzioni e sedi diverse fino alla Cassazione, han giudicato colpevole di aver fatto per anni il trait d’union fra Stato e mafia.
Non solo per le accuse di una ventina di pentiti (le prime furono di Gaspare Mutolo davanti a Borsellino, assassinato due settimane dopo), ma pure da una gran quantità di autorevolissimi testimoni. Vari giudici raccontarono la diffidenza di Falcone e Borsellino nei confronti di “’u Dutturi”: Del Ponte, Caponnetto, Almerighi, Vito D’Ambrosio, Ayala, oltre a Laura Cassarà, vedova di Ninni (uno dei colleghi di Contrada alla Questura di Palermo assassinati dalla mafia mentre lui vi colludeva). Tutti a ripetere che Contrada passava informazioni a Cosa Nostra e incontrava boss come Rosario Riccobono e Calogero Musso. Nelle sentenze a suo carico si legge che Contrada concesse la patente ai boss Stefano Bontate e Giuseppe Greco; agevolò la latitanza di Totò Riina e la fuga di Salvatore Inzerillo e John Gambino; ebbe rapporti privilegiati con Michele e Salvatore Greco; spifferò segreti d’indagine ai mafiosi in cambio di favori e regali (come i 10 milioni di lire accantonati nel bilancio di Cosa Nostra a Natale del 1981 per acquistare un’auto a una sua intima amica). Decisivo fu il caso di Oliviero Tognoli, l’imprenditore bresciano arrestato in Svizzera nel 1988 come riciclatore della mafia. Secondo Carla Del Ponte, che lo interrogò a Lugano con Falcone, Tognoli ammise che a farlo fuggire dall’Italia era stato Contrada. Ma poi, terrorizzato da quel nome, rifiutò di verbalizzare e in seguito ritrattò. Quattro mesi dopo Cosa Nostra tentò di assassinare Falcone e la Del Ponte all’Addaura.
Ora quest’uomo verrà risarcito dallo Stato con soldi nostri per i 10 anni trascorsi in carcere, riavrà a spese nostre la pensione di dirigente della Polizia che gli era stata revocata, oltre al diritto all’elettorato attivo e passivo (potrà votare e anche essere eletto). Ma non solo: tutti i condannati per concorso esterno, da Dell’Utri in giù, chiederanno lo stesso trattamento, cioè di salvarsi dalle conseguenze di sentenze anche definitive e tornare alla vita normale, magari anche in Parlamento, da sicuri colpevoli del gravissimo reato che hanno inoppugnabilmente commesso. Se qualcuno avesse ancora bisogno di prove sulla trattativa Stato-mafia avviata 25 anni da alcuni carabinieri del Ros e tuttoggi in pieno corso, è servito. Bisogna proprio avere l’anello al naso per non notare la repentina, vomitevole regressioneall’età della pietra dell’antimafia, quando Cosa Nostra ufficialmente non esisteva o era solo un’accozzaglia di rozzi e incolti professionisti della violenza senza complici nelle istituzioni, nella politica, nella finanza, nell’imprenditoria, nelle professioni, nella Chiesa: i “concorrenti esterni” che le hanno garantito due secoli di vita e potere, come a nessun’altra organizzazione criminale al mondo.
Il tutto avviene all’indomani del 25° anniversario dell’assassinio di Falcone e a pochi giorni da quello di via d’Amelio, costata la vita a Borsellino e ai suoi angeli custodi. Ora, con buona pace della Corte di Strasburgo che la mafia non l’ha mai vista neppure in cartolina, e della nostra Cassazione che invece dovrebbe saperne qualcosa, il reato di concorso esterno non è un’invenzione: è sempre esistito, come il concorso in omicidio, in rapina, in truffa, in corruzione ecc. Nel 1875, quando la Sicilia aveva una Cassazione tutta sua e la mafia si chiamava brigantaggio, già venivano condannati i suoi concorrenti esterni agrigentini per “complicità in associazione di malfattori”. Nel 1982 la legge Rognoni-La Torre creò finalmente il reato di associazione mafiosa (art. 416-bis del Codice penale) e subito dopo, nel 1987, il pool di Falcone e Borsellino contestò il concorso esterno in associazione mafiosa ai colletti bianchi di Cosa Nostra nella sentenza-ordinanza del maxiprocesso-ter. Poi bastò che finissero nei guai alcuni potenti, tipo Contrada (condannato), Carnevale (condannato in appello e assolto dai colleghi della Cassazione), Dell’Utri (condannato), Cosentino (condannato in primo grado) e compagnia bella, perché i loro concorrenti esterni nel Palazzo e nei giornali strillassero al reato inesistente, confuso, fumoso. Idiozie che fortunatamente quasi mai trovavano cittadinanza nei tribunali, nelle corti d’appello e in Cassazione.
Invece ora, all’improvviso, con le minacce di Graviano dal carcere e le larghe intese dietro l’angolo, si può dire e fare tutto. Anche mettere nero su bianco che uno stragista con 15 ergastoli sul groppone non deve morire in carcere, ma a casa sua. Anche sostenere, restando seri, che un superpoliziotto, già capo della Mobile e della Criminalpol a Palermo e poi numero 3 del Sisde, non sapeva che incontrare e favorire i boss, farli fuggire, avvertirli dei blitz dei colleghi (tutti ammazzati), restituirgli il porto d’armi, fosse reato: lo scoprì solo quando glielo disse la Cassazione a sezioni unite in un altro processo. E allora si battè una mano sulla fronte: “Cazzo, a saperlo per tempo non avrei lavorato tanti anni per la mafia prendendo lo stipendio dallo Stato! Ma non potevate dirmelo prima?”.
Questa vergogna senza eguali viene contrabbandata per “garantismo”, mentre scava un fossato ormai incolmabile fra diritto e giustizia, fra regola e prassi, fra imputati di serie A e di serie B, fra potenti e poveracci, fra ricchi e poveri. A furia di depenalizzare reati gravissimi, agevolare prescrizioni, allargare immunità, regalare franchigie ai soliti noti, è sempre più difficile accettare le sentenze di una giustizia forte coi deboli e debole coi forti. Il mese scorso un tizio di Palermo che aveva rubato un pezzo di formaggio in un supermercato di Mondello s’è beccato 16 mesi di galera senza la condizionale: cioè finirà in galera. E quelli che per anni (entro e non oltre il 1994) hanno venduto lo Stato alla mafia la faranno franca l’uno dopo l’altro. Si spera almeno che chi plaude o tace su questo schifo, il 19 luglio ci risparmi le solite corone di fiori in via d’Amelio. E abbia il coraggio di fare sulle tombe di Borsellino e Falcone ciò che fa di nascosto da 25 anni: sputarci sopra.
Fonte: QUI

domenica 9 luglio 2017

Davigo lascia la giunta dopo la nomina dell’ex Pd Tenaglia.


Il magistrato, due volte in Parlamento con il centrosinistra, è stato nominato dal Csm come presidente del Tribunale di Pordenone. L'ex pm di Mani Pulite, contrario alle toghe in politica: "Avevamo chiesto di non designare a funzioni giurisdizionali chi è stato eletto". Per Albamonte e il suo vice Sangermano si tratta di "neo populismo giudiziario"


È scontro tra Piercamillo Davigo ed Eugenio Albamonte, ex ed attuale presidente della Associazione nazionale magistrati. Tutto nasce dalla decisione di Autonomia e Indipendenza, gruppo a cui appartiene il pm di Mani Pulite, di lasciare la Giunta unitaria dell’Anm dopo poco più di un anno. La miccia è stata l’abbandono, la polemica è invece scoppiata attorno alle reali ragioni. Perché quando venerdì Davigo ha annunciato l’uscita di Michele Consiglio e del vice-segretario Francesco Valentini dall’organo di vertice dell’associazione ha spiegato che esiste “unadivergenza sostanziale sul ruolo dell’Anm, che non può ignorare il disagio dei colleghi di fronte all’incomprensibilità delle decisioni del Csm” sugli incarichi direttivi. Una ‘scusa’, secondo Albamonte, per nascondere “l’obiettivo di crearsi una verginità” da parte di un gruppo, quello guidato dal pm di Mani Pulite, “che ha posizioni caratteristiche del populismo“.
“Non possiamo condividere un indirizzo che su punti fondamentali non ci trova d’accordo – aveva spiegato Davigo – La tutela del prestigio del Csm si tiene aiutandolo a non farlo sbagliare. Non possiamo assistente inerti a quello che sta accadendo”. Motivazioni bollate subito come “gratuite e strumentali” da parte del vice presidente dell’Anm, Antonio Sangermano. “Dopo aver fatto il presidente per un anno e averci deliziato con i suoi anatemi, ha ora deciso di abbandonare l’unità associativa perché evidentemente non gli conviene più”, è la denuncia di Sangermano che ha poi invitato le componenti “responsabili” dell’Anm a proseguire “nel cammino unitario intrapreso senza cedere alla tentazione di inseguire il neo populismo giudiziario”. Parole a cui hanno fatto eco quelle di Magistratura Indipendente che accusa Davigo d’essere in “campagna elettorale permanente”.
A cosa si riferiva l’ex presidente dell’Anm? La ragione della rottura è legata alla nomina a presidente del Tribunale di Pordenone dell’ex parlamentare del centrosinistra Lanfranco Tenaglia, deputato prima con L’Ulivo e poi con il Partito Democratico tra il 2008 e il 2013 ministro della Giustizianel governo ombra voluto da Walter Veltroni. Lo ha spiegato anche in un’intervista a Repubblica, senza citare Tenaglia: “Abbiamo approvato un documento per chiedere al Parlamento di inserire nel ddl sulle toghe in politica l’obbligo di destinare a funzioni non giurisdizionali chi è stato eletto – dice l’ex presidente dell’Anm – Ma poi un magistrato che torna in ruolo dopo due mandati parlamentari viene proposto come presidente di un tribunale…”. A quel punto – continua Davigo che sulle toghe in politica si detto contrario anche nell’ultimo discorso da presidente – “abbiamo chiesto di intervenire visto che i gruppi al vertice dell’Anm sono gli stessi che al Csm fanno le nomine, per cui non ci possono essere posizioni diametralmente opposte”.
Ma la questione Tenaglia, secondo l’attuale presidente Albamonte, sarebbe solo un pretesto: “Davigo ha fatto il primo turno di presidenza, ha raccolto una visibilità personale e alla prima occasione ha abbandonato la nave – attacca – L’obiettivo è crearsi una verginità e attrarre l’elettorato su una prospettiva di chissà quale purezza”. Un giudizio molto critico quello espresso da Albamonte in un’intervista al quotidiano Il Tempo. Quanto alle presunte “ambizioni politiche” di Davigo, Albamonte ha osservato: “Mi è capitato di constatare che una serie di magistrati di Autonomia e Indipendenza e lo stesso Davigo hanno partecipato a iniziative pubbliche organizzate dal Movimento 5 Stelle, da ultima quella in cui Di Matteo ha detto di non candidarsi alle prossime politiche. Certo le posizioni del gruppo di Davigo hanno delle caratteristiche di populismo che potrebbero essere avvicinate ad altri tipi di populismo”.
La scelta dell’ex pm di Mani Pulite, ha continuato, “è un modo per affermare la sua differenza rispetto al resto della magistratura, ma se è così differente non vedo perché abbia accettato di essere fino a pochi mesi fa presidente di tutti i magistrati italiani”. La ragione, secondo Albamonte, risiederebbe invece nel fatto che “tra un anno ci sono le elezioni al Csm: alla scorsa tornata Autonomia e Indipendenza ha avuto solo un consigliere e il gruppo di Davigo pensa di farsi campagna elettorale dicendo che le cose fatte dai consiglieri degli altri gruppi sono illegittime”.
Fonte: QUI

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