Il tabù l’ha infranto definitivamente Matteo Renzi, facendola però un poco troppo facile come spesso gli capita. Perché come vedremo più avanti le cifre in ballo sono ben più alte di quelle che ipotizza il premier.
«Se una donna a 61, 62 o 63 anni – ha spiegato a maggio Renzi durante una conferenza stampa – vuole andare in pensione due o tre anni prima, rinunciando a 20-30-40 euro, per godersi il nipote anziché dover pagare 600 euro la baby sitter, bisognerà trovare le modalità per cui, sempre con attenzione ai denari, si possa permettere a questa nonna di andarsi a godere il nipotino. Le normative del passato sono intervenute in modo troppo rigido».
Il tema è quello della flessibilità in uscita. E di come introdurre meccanismi di gradualità che la legge Fornero non ha previsto. Sul piatto, mentre il governo annuncia una sua proposta in occasione della presentazione della prossima legge si stabilità, per ora ci sono due progetti:
1) quello del presidente dell’Inps Tito Boeri
2) quello depositato alla Camera dal presidente della Commissione lavoro Cesare Damiano e dal sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta.
LE DUE PROPOSTE
Boeri, per consentire ad un lavoratore di andare in pensioni prima dei 66 anni attualmente previsti, propone di introdurre il calcolo contributivo. Damiano-Baretta preferiscono invece un meccanismo di penalizzazioni e incentivi che a seconda degli anni che si intende lavorare in meno o in più.
QUALE DEI DUE SISTEMI CONVIENE DI PIU’?
La proposta Boeri ha il pregio di non impattare sul debito previdenziale, ma stando alle prime simulazioni, è quella che penalizza di più i pensionati. Quella su cui sta lavorando la commissione lavoro della Camera penalizza di meno gli assegni ma ha un costo certamente significativo.
ECCO I NUMERI A CONFRONTO
Il progetto Damiano-Baretta prevede come requisito minimo 35 anni di contributi ed un assegno pari ad almeno 1,5 volte quello sociale. Quindi per ogni anno di anticipo rispetto ai 66 anni di età pensionabile si perde un 2% sino ad arrivare ad un taglio dell’8% per chi va in pensione a 62 con 35 anni di contributi. Se si hanno più anni di contributi la penalizzazione è più leggera. Chi resta di più al lavoro guadagna invece 2 punti percentuali ogni 12 mesi lavorati in più sino ad arrivare ad una maggiorazione che a 70 anni di età arriva all’8%. In alternativa, sia uomini che donne, possono andare in pensione dopo aver maturato 41 anni di anzianità contributiva a prescindere dall’età anagrafica e senza alcuna penalizzazione.
Per il presidente dell’Inps Tito Boeri una proposta del genere avrebbe costi enormi, nell’ordine dei 10 miliardi. Cifra che Damiano però contesta. Soprattutto perché non calcola le risorse che nell’attuale regime si devono impegnare per sostenere il reddito di chi non lavora più, sia attraverso l’impiego della cassa integrazione in deroga sia attraverso le salvaguardie dei cosiddetti esodati, che fino ad ora ci sono costate ben 11,6 miliardi di euro.
IL PIANO BOERI
Secondo le prime stime dei sindacati il passaggio al contributivo ipotizzato dal presidente dell’Inps potrebbe arrivare a decurtare le pensioni più basse anche si un buon 30-35%. Boeri, che non fornisce simulazioni dettagliate della sua proposta, arriva ad ipotizzare una riduzione che al massimo può arrivare al 3/3,5% per ogni anno lavorato in meno. Precisando tra l’altro che il ricalcolo col metodo contributivo potrebbe essere fatto anche su singoli spezzoni e non sull’intersa carriera previdenziale degli interessati. Questa la filosofia del suo progetto tratta dal discorso pronunciato alla Camera l’8 luglio in occasione della presentazione del rapporto annuale dell’Inps.
«Le regole del sistema contributivo – spiega Boeri - consentono una certa flessibilità in uscita. Spalmando un montante contributivo accumulato durante la vita lavorativa in pagamenti mensili, in base all’età e alla speranza di vita residua. Chi va in pensione prima deve spalmare questa cifra su molti più mesi di chi va in pensione più tardi. A parità di montante, ogni anno in meno di lavoro comporta una riduzione di questi pagamenti mensili, tenendo conto della demografia e dell’andamento dell’economia. Posto che le pensioni siano sufficienti a garantire una vita dignitosa, senza comportare l’intervento dell’assistenza sociale, questa è una flessibilità sostenibile, che non grava sulle generazioni future, in quanto non porta ad aumentare il debito pensionistico. Si può così permettere a chi ha in mente di dedicare meno tempo al lavoro verso la fine della propria carriera di farlo, senza per questo gravare sulle generazioni future. Questa flessibilità può essere anche molto utile durante le recessioni perché permette che parte dell’aggiustamento del mercato del lavoro agli shock macroeconomici avvenga attraverso riduzione dell’offerta di lavoro anziché generando disoccupazione come è avvenuto negli ultimi sette anni. Un principio simile può essere applicato anche a chi andrà in pensione nei prossimi anni con regimi diversi dal sistema contributivo».
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LA SIMULAZIONE DELLA UIL
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