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martedì 10 novembre 2015

Il laboratorio segreto dove uomini dell’ex Kgb «ripulivano» le analisi


Nell’atletica leggera russa ci voleva davvero sfortuna per farsi beccare dall’antidoping. Il meccanismo di protezione di chi imbrogliava era infatti - fino a ieri - potente e virtualmente infallibile. Nelle 323 pagine del rapporto Wada, un ispettore pentito della Rusada (l’agenzia antidoping di Stato, di cui l’Agenzia ha chiesto la sospensione) ha confessato le angosce che lo assalivano dal momento del prelievo del campione di urina (o sangue) all’atleta a quello della consegna al laboratorio moscovita. Uomini del Fsb (l’ex Kgb) lo seguivano passo passo pretendendo di conoscere i codici delle provette: tenevano informati i tecnici che si preparavano ad alterarle. Una volta giunti nel laboratorio di Mosca, i campioni biologici erano in buone mani.

Dal punto di vista russo, sia chiaro. Sul conto corrente di Grigory Rodchenko, l’onnipotente direttore, protetto dai servizi segreti, la Wada ha evidenziato infatti i regolari bonifici dagli atleti che volevano coprire le loro positività. Rodchenko taroccava costantemente le analisi e, lo scorso anno, ordinò l’immediata distruzione di 1.417 campioni di urine che la Wada aveva chiesto di riesaminare. Deprecabile errore umano, secondo lui. Depistaggio per la Wada. Stupefatti, gli ispettori hanno scoperto l’esistenza, a Mosca, di un laboratorio di Stato «parallelo», più attrezzato di quello ufficiale. Diretto dallo scienziato Bezhanishvili, il laboratorio era specializzato nel neutralizzare i campioni biologici positivi e, allo scopo, conservava grandi quantità di urina «pulita» per eventuali rabbocchi. Attiguo al centro, un polo trasfusionale risolveva ogni problema: non di soggetti malati ma di atleti in perfetta forma. Sergey Portugalov, capo della commissione medica federale russa, procurava e dosava (a pagamento, s’intende) il doping agli atleti. Un maestro nel settore. I controlli a sorpresa, arma fondamentale dell’antidoping moderno, in Russia erano (e sono) una barzelletta.
Tra marzo e maggio 2015, emissari della Wada hanno visitato senza preavviso i centri di allenamento riservati a marciatori e maratoneti.Hanno scoperto che nel campus olimpico di Saransk - sperduta repubblica autonoma della Mordovia - gli atleti (obbligati a presentarsi entro 15 minuti dall’arrivo dei controlli) apparivano dopo molte ore, si qualificavano sotto falso nome, irridevano gli ispettori protetti dai loro tecnici. Nelle schede di reperibilità, le mail e il numeri di telefono appartenevano ai dirigenti. Erano loro a essere avvisati, molto tempo prima dei controlli. Alla faccia della sorpresa. Il doping era così sfrontato che, grazie ai prelievi nelle competizioni internazionali, alcuni atleti sono stati comunque trovati positivi o con alterazioni clamorose del passaporto biologico. Ecco che scattava il piano B. All’atleta veniva chiesto denaro (la cifra più alta riscontrata sono i 450 mila euro alla maratoneta Shobuchova, che aveva un bel conto in banca grazie alle vittorie nelle maratone internazionali) da bonificare alla presunta «cupola» della Iaaf per coprire il caso, rallentando le procedure di sanzione. Gli stessi tecnici-dopatori, però, ne trattenevano una consistente parte per pagarsi il disturbo. A quel punto, spiega la Wada, la Iaaf iniziava una lunga melina per permettere ai sospetti di preparare la loro difesa senza essere incriminati. È su questo aspetto che si concentreranno le indagini dell’Interpol. E i poveretti (50 negli ultimi tre anni) comunque smascherati e sanzionati? Beh, gli atleti sotto squalifica venivano fatti regolarmente gareggiare sotto falso nome nelle competizioni nazionali e internazionali sul suolo russo, in modo da farsi trovare pronti al rientro alle gare. In Russia la federazione pensava a tutto. Anche alla redenzione dei peccatori.
Fonte: corriere.it

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